La Mostra:
“Contaminazioni post-moderne”

La contaminazione è una delle conseguenze impreviste del nostro tempo, cioè di questo tempo che abbiamo variamente definito e che ancora variamente definiremo, perché chiaramente il sistema delle denominazioni è un sistema fragile, è un sistema che è adeguato a un momento della trasformazione della cultura, e quindi della vita materiale, del contesto individuale e di quello sociale, ma diventa subito inadeguato perché appartiene a un farsi o un disfarsi del linguaggio che non ha più interruzione senza intermissione, perché è la vita stessa della lingua e del linguaggio, cioè ogni lingua, ogni linguaggio che per un attimo solo cessassero di essere così dinamiche attive, capaci di essere pelle, di essere involucro ma pienamente aderenti alla realtà, sarebbero destinate a diventare archeologia, come tante lingue e tanti linguaggi diventano archeologie senza che noi ce ne accorgiamo.

Ce ne accorgeremo quando un certo spessore di tempo ci farà riflettere sul sistema linguistico e ci accorgeremo di aver perso per strada tante parole, tante definizioni che non ci appartengono più e che per un momento abbiamo ritenuto fondamentali per la nostra capacità di connotare e di denotare.

Le opere di Alfredo Prado e Domenico Boscia ci dicono che la contaminazione è appunto questo, è la presa di coscienza, la consapevolezza di una esigenza di modificazione quindi la modificazione in sé, la modificazione per sé. La modificazione in sé è quello che avviene al di là della nostra coscienza, quella per sé è quella che invece avviene nella coscienza e quindi capace di diventare originalità ricca, cioè una originalità che è consapevole di se stessa, e quindi in grado di procedere, di manovrare nel sistema delle culture, delle acquisizioni, delle memorizzazioni e degli abbandoni di sé.

Con la scelta dei due artisti per il centro Visione Globale, il curatore, Rosario Caserta dichiara che nel nostro tempo non esiste uno stile, ma esiste una pluralità di stili, certamente meno durevoli nel tempo, ma non per questo meno affascinati, cioè la pluralità e la diminuzione temporale destano sempre di più l’interesse che nel tempo invece viene a consolidarsi per una legge di psicologia oggettiva, tende diciamo ad essere meno interessante, perché non ha più l’imprevisto. Ecco tutto ciò che perde d’imprevisto, perde d’imprevisti, chiaramente appartiene al nostro sistema di autoriconoscimento, cioè quindi di soddisfazione, ma non ha la carica imperativa del nuovo che sconvolge il vecchio e lo introduce in fantasmi, in orizzonti in paesaggi che non gli sono propri, come fanno i nostri Prado e Boscia.

Quindi le loro opere, arte e applicazione dell’arte, non sono l’abbandono della cultura, l’abbandono dello stile ma è l’adesione alla cultura, l’adesione agli stili in questa nuova dimensione in cui la parola pluralismo diventa qualche cosa da sottoporre continuamente alla verifica dei poteri. Perché non c’è cosa peggiore, non c’è di peggio che dare per acquisito un significato vecchio a qualche cosa di nuovo, ovvero il nuovo non può essere detto con la forma del vecchio anche se spesso la forma del vecchio è talmente potente e forte da potersi collegare mimetizzandosi nelle lingue forti, nei linguaggi forti.